11.10.22 – Robert Doisneau: una sontuosa antologica a Camera – fino al 14 febbraio 2023

Ieri mattina abbiamo partecipato alla presentazione alla stampa della nuova, sontuosa, mostra di Camera - Centro Italiano per la Fotografia, aperta dall'11 ottobre 2022 al 14 febbraio 2023.

Robert Doisneau (1912-1994), notissimo per alcuni scatti iconici tra cui il celeberrimo “Baiser de l’Hotel de Ville”, ha lasciato un patrimonio di 450 mila negativi, meno noti.

L’ampia antologica di Camera consente di approfondire la conoscenza di uno dei Maestri riconosciuti del XX secolo.

Una mostra da gustare lentamente, per entrare a fondo nel mondo ripreso da Doisneau, per viverlo con gli stessi sentimenti che traspaiono dai suoi scatti.

Al termine rimane, anche nei giorni successivi, un retrogusto buono, un ricordo morbido ed avvolgente.

È una cifra stilistica specifica di Doisneau, rispetto al suo più noto collega Cartier-Bresson, che me le ho fatto amare fin dalla gioventù: mentre nelle foto di HCB traspare un approccio calcolato, quasi matematico, talmente perfetto da risultare spessp algido, nelle immagini di Doisneau c’è un fil rouge di coinvolgimento, di empatia, di immedesimazione, di partecipazione alla realtà che fotografa, che arriva all’osservatore non frettoloso.

Le parole del curatore Gabriel Bauret spiegano perfettamente l’intento della mostra: “non è l’ennesima esposizione su Robert Doisneau né una retrospettiva sulla sua produzione, ma è frutto della scelta consapevole di mettere in evidenza quello che c’è dietro le sue fotografie”.

In primo luogo si vuole mostrare il legame tra le sue opere e la sua biografia, scoprire l’Autore dietro le sue immagini.

È un uomo con una determinata storia, che viene da un determinato contesto e che ha cercato di ritrovare nella fotografia alcuni aspetti forse mancati nella sua esistenza. In particolare, Doisneau ricerca, nel suo “teatro della strada”, una certa forma di tenerezza, una certa forma di umanità.

È un fotografo “umanista” nel senso che l’uomo è al centro della Fotografia.

Doisneau non è un filosofo ma la sua fotografia è vicina alla filosofia umanista ed esistenzialista di Camus e di Sartre. La sua postura fotografica è pienamente consapevole del suo periodo storico, immersa nei drammi e delle speranze dell’uomo del suo tempo, e proprio per questo è assolutamente contemporanea ed attuale nella sua essenza.

É un fotografo che ricercava il proprio piacere personale nell’atto del fotografare, che cercava di trovarsi a proprio agio in quell’universo.

Del resto, Doisneau diceva spesso di amare e cercare quelle situazioni nelle quali si sentiva bene. In quelle situazioni che fotografa ritroviamo, infatti, sentimenti, complicità, intesa, nonché ironia e curiosità”

Il secondo aspetto che emerge da questa mostra è la qualità della composizione.

La costruzione dell’immagine va ben oltre il soggetto e il risultato è che tutto contribuisce ad evidenziare e far esprimere il soggetto stesso.

Consiglio di prestare particolare attenzione a questo aspetto, che in alcune immagini appare al primo colpo d’occhio, ma in molte altre emerge sottilmente e lentamente.

La mostra presenta un percorso attraverso i temi ricorrenti da lui affrontati in più di cinquant’anni con la fotocamera sempre pronta a scattare: Bambini, 1934 – 1956; Occupazione e Liberazione, 1940 – 1944; Il dopoguerra, 1945 – 1953; Il mondo del lavoro, 1935 -1950; Il teatro della strada, 1945 – 1954; Scene di interni, 1943 – 1970; Portinerie, 1945 – 1953; Ritratti, 1942 – 1961; Una certa idea della felicità, 1945 -1961; Bistrot, 1948 – 1957; Moda e mondanità, 1950 – 1952.

Il sontuoso allestimento della mostra a CAMERA presenta oltre 130 stampe ai sali d’argento in bianco e nero su carta baritata che provengono tutte dalla collezione dell’Atelier Robert Doisneau a Montrouge.

Al termine, un’intervista video al curatore Gabriel Bauret e la proiezione di un estratto dal film realizzato nel 2016 dalla nipote del fotografo, Clémentine Deroudille: Robert Doisneau, le révolté du merveilleux (Robert Doisneau. La lente delle meraviglie), che contribuisce ad approfondire la conoscenza dell’uomo e della sua opera.

Last but non least, con l’intento di favorire la partecipazione di un pubblico sempre più ampio, la mostra include un percorso dedicato alle persone con disabilità visiva che comprende disegni a rilievo e relative audiodescrizioni.

Infine il notevole catalogo “Robert Doisneau”, edito da Silvana Editoriale.

 

INFORMAZIONI

CAMERA - Centro Italiano per la Fotografia

Via delle Rosine 18, 10123 - Torino www.camera.to | camera@camera.to

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Orari di apertura (Ultimo ingresso, 30 minuti prima della chiusura)

Lunedì 11.00 - 19.00

Martedì 11.00 - 19.00

Mercoledì 11.00 - 19.00

Giovedì 11.00 - 21.00

Venerdì 11.00 - 19.00

Sabato 11.00 - 19.00

Domenica 11.00 - 19.00

Chiusura

24 dicembre 2022

25 dicembre 2022

Orari speciali

31 dicembre 2022 11.00-15.00

1 gennaio 2023 15.00-19.00

Biglietti
Ingresso Intero € 12
Ingresso Ridotto € 8, fino a 26 anni, oltre 70 anni

e per i soci / possessori / iscritti:

Alliance Française AFIP – Associazione Fotografi Professionisti, Aiace Torino, Amici della Fondazione per l’Architettura, APC Gold Card, Card “Io Leggo di Più”, Card MenoUnoPiuSei, Centro Congressi Unione Industriale Torino, COOP, ENI Station, Enjoy, FAI – Fondo Ambiente Italiano, FIAF, Hangar Bicocca, Medicina e Misura di Donna Onlus, Ordine degli Architetti, Slow Food, Touring Club Italiano.

E per possessori del biglietto d’ingresso di:

Gallerie d’Italia (Torino, Milano, Napoli, Vicenza), Forte di Bard, Museo Nazionale del Cinema, MEF – Museo Ettore Fico.

Ingresso Gratuito
Bambini fino a 12 anni
Possessori Abbonamento Musei Torino Piemonte, possessori Torino + Piemonte Card, soci ICOM.

Visitatori con disabilità e un loro accompagnatore. Guide turistiche abilitate

09.09.22 – Al MAO la mostra: Riposo! Cina 1981-1984 nelle foto di Andrea Cavazzuti

Stamattina abbiamo partecipato alla presentazione alla stampa della nuova mostra del MAO (Museo d’Arte Orientale di Torino).

Si tratta questa volta di una mostra fotografica, ispirata alle radici culturali del Museo, ma ormai orientata alle nuove direttive dei Musei italiani, non più solo luogo della conservazione, ma soprattutto della fruizione, della produzione culturale, della condivisione pubblica del sapere e del patrimonio materiale artistico.

Questo al centro dell’introduzione del suo Direttore Davide Quadrio, nell’occasione anche curatore della mostra insieme a Stefania Stafutti, direttrice italiana dell’Ist.Confucio dell’Università di Torino, che hanno poi presentato la mostra e l’Artista fotografo.

Non si tratta di una mostra qualsiasi sulla Cina tra il 1981 e il 1984, ma delle fotografie di un importante Autore italiano, Andrea Cavazzuti, classe 1959, che partecipò tra le altre cose a “Viaggio in Italia”, il progetto fotografico inventato e coordinato da Luigi Ghirri, che vide coinvolto anche un altro grande come Olivo Barbieri che sarà a Torino il 1° ottobre proprio insieme a Cavazzuti.

Andrea Cavazzuti vive e lavora da più di trent’anni in Cina, dove approdò nel 1981.

Le sue parole: “In Occidente l’immaginario visivo della Cina era, come un po’ ancora oggi, quello del già defunto Mao e della già conclusa Rivoluzione Culturale. Figlio dei miei tempi e allenato com’ero a cercare oltre gli stereotipi anche in patria, fotografavo una Cina non vista e, quel che è peggio, nemmeno immaginata, quindi invisibile. Le cose già viste soddisfano, consolano, hanno a che fare con la memoria mentre il non visto è secco, scostante, refrattario, a volte antipatico. La Cina mi si presentava come uno straordinario bazar di oggetti, scene e comportamenti non omologati tra i nostri cliché culturali. Per me era irresistibile: gli oggetti in vista, la totale mancanza di privacy, le attività umane messe in scena su un palcoscenico sempre aperto, il paradiso del fotografo”.

La mostra di oltre 70 stampe in bn scattate in Cina tra il 1981 e il 1984, mostra in modo convincente “il clima della Cina di quegli anni: un paese ancora povero, ma affacciato su un futuro denso di speranza e animato da un entusiasmo che fa di quel periodo uno dei momenti più interessanti e, a mio avviso, più belli della storia recente di questo complesso paese” (Stefania Stafutti).

Il titolo dell’esposizione, 稍息 Riposo!”, è un riferimento agli anni di passaggio tra un periodo drammatico e l’avvio della rincorsa alla modernità attuale. Le sue immagini hanno seguito e immortalato la Cina e i suoi giganteschi cambiamenti dagli anni Ottanta a oggi, costituendo una testimonianza preziosa oltre che un’opera affascinante e corposa.

Con uno sguardo nitido e poetico, e un’ingente dose di senso dell’umorismo, Andrea Cavazzuti cristallizza in queste immagini una Cina che non esiste forse più, ma che è indispensabile conoscere per comprendere la storia e la personalità del colosso mondiale di oggi. Il suo sguardo è quello di uno straniero senza arroganza: la nostalgia gratuita è messa al bando, così come la trita ricerca dell’esotico. L’occhio di Cavazzuti coglie bellezza, comicità, fascino e stranezze con la freschezza del primo incontro. Le opere esposte, influenzate dalla forza della fotografia italiana di quegli anni, dimostrano però di trovare anche una strada del tutto personale.

Molte immagini colgono i contrasti di quegli anni, forieri del tumulto successivo, e si concludono sapientemente con una foto che affianca due giovani, vestiti uno in abito maoista, l’altro in abito di fattezze occidentali.

Consiglio senza dubbio la visita di questa mostra (termina il 2 ottobre p.v., quindi affettatevi!) per ammirare notevolissime stampe di grande formato in un eccellente bianco nero, di un Fotografo con la maiuscola, eccellente e non supponente, bravo ma modesto, con cui si può dialogare tranquillamente, come ho fatto. Anche dell’illuminazione da migliorare e dei riflessi che costringono l’osservatore ad un surplus di pazienza.

Ma questo è un problema ricorrente che Musei e Gallerie non sembrano in grado di superare, per vari motivi anche comprensibili. Peccato però, perché opere sontuose come quelle di Cavazzuti chiederebbero miglior godibilità.

In sintesi tantissimi complimenti all’Autore e anche al MAO che ha comunque allestito una mostra davvero eccellente sotto tutti i punti di vista.

19.02.22 – Note sulla mostra “Vivian Maier inedita” a Torino fino al 26 giugno 2022

Sono sempre piuttosto diffidente verso la cultura basata sui grandi nomi, quelli che quasi tutti conoscono e che quindi attirano.
Capitava così negli anni ’80-’90 a teatro, quando veniva proposto solo Pirandello, Goldoni, Feydeau, et similia.
Capita ancora oggi nel mondo dell’arte in generale, e della fotografia in particolare.

Poiché la fotografia è purtroppo ancora un’arte minore, almeno per il grande pubblico, e quindi il richiamo si fa usando i grandi nomi: Mc Curry, Cartier Bresson, Mc Curry in tutte le declinazioni possibili (… e i libri, e gli animali, e gli antipasti, e le scarpe, e le zie, ecc.), Vivian Maier, Mc Curry (sì, sì, sempre lui, stavolta coi tacchini e i bambini), ecc.  Insomma si è capito.
Per fare mostre di cassetta si propongono sempre i soliti nomi, anche a ripetizione.
Per carità! Si capisce bene che organizzare una mostra ha dei costi notevoli (programmazione, trasporti, assicurazioni, personale, e così via) ma talvolta la sciatteria è sconfortante, per usare un eufemismo.
Mi riferisco per esempio alla mostra su Vivian Maier proposta a fine 2019 a Stupinigi, su cui avevo già scritto tutto il peggio possibile.
E il popolo bue è sempre pronto a pagare biglietti sempre più cari per mostre sempre più scarse, pur di poter dire “c’ero anche io”.

Non si tratta di fare snobismo, ma di capire che la cultura non è seguire la corrente, ma è proposta di ricerca, di crescita, di elevazione, di studio, di fatica, di anticipazione.
Mi rendo conto, elencando, che si tratta di valori oggi in grave crisi.

Discorso diverso invece per quanto riguarda la mostra “Vivian Maier inedita”, proposta alle Sale Chiablesi, dal 9 febbraio al 26 giugno.
Mostra molto ampia e ben curata, con un indovinato percorso tematico, con un degno allestimento.

Continuo a pensare che Vivian Maier non sia una delle più grandi fotografe del XX° secolo, come mira a farci pensare il formidabile apparato di marketing che circonda la sua figura orchestrato dalla Maloof Collection, proprietaria della gallina dalle uova d’oro.
Si tratta certamente di una ragguardevole amateur, che merita certamente un posto di riguardo nella storia della fotografia, ma della cui consapevolezza si potrebbe discutere a lungo, soprattutto se si considera che dell’imponente mole di stampe e rullini neppure sviluppati si è venuti a conoscenza solo dopo la sua morte ed in modo assolutamente fortuito, lasciando aperta la possibilità di pensare che la fotografia per lei avesse una valenza terapeutica più che “artistica” o “reportagistica”.
Ciò non significa sottostimare il valore dello spontaneismo, che diversamente si sottrarrebbero alla storia dell’arte molti importanti artisti del ‘900, con scarsa o nulla fortuna in vita.

Riguardo all’”inedita”, diciamo subito che delle oltre 250 immagini esposte, molte sono assolutamente già straviste.
Si deve tuttavia riconoscere che la curatrice Anne Morin ha saputo, in un sapiente allestimento per tematiche, proporre molte “perle”.

La mostra affronta la totalità del lavoro della Maier, dalle foto di street fino ai poco noti filmini in super8, dagli anni ’50 alla fine degli anni ’80.
Tra le diverse sezioni tematiche proposte lungo il percorso espositivo, mi preme qui segnalare ciò che ho trovato particolarmente degno di nota, in quanto diverso dal solito e dal più noto.

La sezione “autoritratti”, oltre ai famosissimi ritratti specchiati nelle vetrine dei negozi, ce ne propone molti giocati sulle ombre e sui profili proiettati: una modalità certamente meno vista e conosciuta, ma che mi ha suscitato interesse ed ammirazione.

 

 

 

 

 

L’ombra del fotografo è normalmente considerata un errore. In questo caso Vivian Maier ha saputo farla diventare soggetto importante, elemento “animato” della composizione, con una sottile ironia allusiva, forse inconscia metafora della propria situazione esistenziale: una donna che vive nell’ombra, e che nell’ombra esprime se stessa in una modalità nascosta.

Il motivo delle ombre si ritrova nella sezione dedicata all’infanzia, nelle cui immagini gli stessi bambini che accudiva diventano partecipi del suo gioco.

Una indubbia capacità di creare situazioni in cui l’osservatore si sente chiamato, invitato alla partecipazione attiva, ad indagare e a porsi domande.

Anche per questo motivo, nelle foto che qui propongo ho aggiunto volontariamente la mia ombra, o i miei riflessi, e per giocare insieme a Vivian.

Sorvolo sulla “ruffiana” esposizione delle foto che la Maier ha realizzato a Torino nel ‘59, nel suo sembra unico viaggio fuori dagli Stati Uniti, sulla strada della avita regione francese del Champsaur: niente di più che banali cartoline ricordo di viaggio.

Mi soffermo invece sulla sezione intitolata “segni”. In queste immagini, che credo di non aver mai visto prima, la Maier si sofferma su oggetti o particolari, a volte talmente slegate dai propri referenti o contesti da risultare astratte.

Questa specie di catalogo di “trouvailles” trova un filo narrativo nel lungo termine e nella quantità, ricomponendosi alla fine nel racconto di un gioco, non direi infantile, magari maturato nelle sue attività di baby sitter.

 

 

L’ultima sezione su cui invito a soffermarsi è quella dei “giochi cinetici”.

Dall’inizio degli anni settanta il movimento e la frammentazione si inseriscono nel suo linguaggio fotografico.  Vivian Maier gioca con le temporalità, creando sequenze cinetiche, come usando il linguaggio cinematografico.

In questa sezione ho trovato dei veri, a mio modesto giudizio, colpi di genio che mi hanno catturato ed ispirato.

 

 

 

 

 

Il resto non lo anticipo, ma lo troverete riccamente esposto e sapientemente descritto anche nei generosi pannelli di presentazione di ogni sezione tematica.

Per ultimo, purtroppo due parole sull’illuminazione. Nella precedente mostra a Stupinigi era orrenda, insieme ad altri aspetti. Qui, nelle Sale Chiablesi, è molto migliorata, anche grazie a spazi di fruizione molto abbondanti.

Tuttavia quasi tutte le stampe riflettono in modo fastidioso. Allora io chiedo due cose:

  1. Per una mostra il cui biglietto di ingresso non è proprio popolare, non si potrebbero allestire cornici con vetro antiriflesso?
  2. Per quanto possa valere una stampa “argentique”, visto che sono comunque tutte ristampe, è proprio il caso di mettere un vetro di protezione? Non si potrebbe godere della vista “tattile” della ruvidità della carta senza un vetro di mezzo? Se anche se ne rovinasse una o due, cosa ci vorrebbe a ristampare? Ci sono nei musei opere di ben altro valore con minore protezione dal pubblico.

Godetevi una mostra di complessivamente ottimo livello!

 

 

 

07.02.22 – Note sui commenti vuoti alle fotografie.

Da molto tempo avevo in mente di scrivere queste note e finalmente ne ho trovato lo spirito giusto.

Quando ad una persona una tua fotografia non piace, ciò risulta abbastanza evidente.

Soprattutto se la persona in questione ha rapporti con te autore. Ma di solito vale in generale.

Ha timore di offendere e quindi si trattiene nei commenti, resta alla superficie e gira intorno, in uno stentato politically correct, che a Torino definiamo “falso e cortese”.

Ed in questi casi, il linguaggio non verbale è molto più esplicito di quello verbale: il viso non si apre, l’espressione resta abbastanza rigida, le parole escono stentate e formali, di circostanza.

Quando invece la fotografia “piace”, lo vedi: le spalle scendono, i muscoli facciali si distendono, gli occhi si dilatano, le parole escono con più facilità.

Le parole spesso si traducono in complimenti, anche se ancora più spesso questi si fermano ad un aggettivo: “bella”, e alle sue articolazioni grammaticali di comparativo o superlativo.

Spessissimo, quasi sempre, la storia dei complimenti finisce lì: “bella”, “bellissima”, “ma che bella!”, seppure con i punti esclamativi.

La questione si fa più intricata quando nel mezzo si pone il social medium.

In questa situazione, quando la foto non piace, il filtro dello schermo consente ai leoni da tastiera le esibizioni più volgari e becere, a volte sprezzanti o violente, spiegabili con un vuoto pneumatico di sostanza, intellettuale e culturale, e soprattutto con una abissale ma supponente incapacità.

Se invece la foto piace, anche in questo caso, accade molto spesso, quasi sempre, che i complimenti si fermino al like o al cuoricino, talvolta (in un inestimabile impeto di generosità di tempo e impegno), come sopra, a “bella”, “bellissima”.

E’ come se per criticare fossimo dotati di un vocabolario quasi infinito ed articolato, variegato nei toni e negli accenti, mentre per lodare ci mancassero drammaticamente proprio le parole, sostantivi ed aggettivi.

Questo comportamento sconta certamente una povertà culturale e lessicale della mia generazione, e delle successive ancor più.

Credo sia indotto anche dalla pigrizia e dalla rapidità d’uso che il social medium in qualche modo pretende o suscita.

Il fatto stesso che la maggior parte dei commenti scritti sia sostituita da una semplice, drammaticamente banale, iconcina (like, cuoricino, ecc.), ma svelta e furba (ops, smart, mi scuso), induce a non sforzarsi a cercare e trovare le parole giuste.

Questo atteggiamento sarebbe accettabile in un contesto generico, o generalista, dove il coinvolgimento è nella natura delle cose veloce e superficiale.

Risulta, almeno per me, meno accettabile in contesti in cui invece il coinvolgimento è a livelli più profondi, motivati da appartenenze, da gusti comuni, da pratiche comuni, da interessi e passioni comuni.

Come per esempio i gruppi fotografici, in cui di norma la comune passione dovrebbe alimentare comportamenti e contributi di più alto valore.

Ciò che dirò di seguito, comunque, riguarda indistintamente sia il caso dell’incontro fisico, sia il caso dell’incontro attraverso un “social”.

Quando qualcuno, osservando una mia foto, commenta estasiato limitandosi a un “bella” o “bellissima”, ormai questo non mi suscita neppure più piacere. Nel migliore dei casi suscita nulla. Quasi come se nessuno avesse detto qualcosa.

Idem per “brutto” e le sue declinazioni.

Di fatto “bella”, “bellissima”, e qualche debole variante (“stupenda”, “wow”, et similia) cosa significano? Ok, bella: da quale punto di vista? Quale valore aggiunto mi arrecano?

Normalmente non dicono proprio nulla. E’ solo un modo semplice, banale ed inutile per fare una cosa che si può anche non fare oppure per togliersi d’impaccio con poco.

Infatti, per lo più, mi si rizza il pelo sulla schiena, mi si scatena la scimmia.

E’ come quando ti dicono “bellissima, sembra un quadro!”.

Aghhhhhh: chi lo dice pensa di farti un complimentone!

Invece tu cominci a sfoderare la katana!

Czzzz, non è un quadro! È una fotografia! Se volevo fare un quadro, compravo colori, pennelli e tele!

Il fastidio sorge dal fatto che, per fare un complimento, in realtà ti stai autoreferenziando, parli di te facendo riferimento, generico e qualunquistico, all’unica arte visiva che probabilmente conosci, e forse perfino non di alto livello, poiché i dipinti che raffigurano ciò che spesso mostrano le foto, magari in modo analogo, non sono normalmente valutati bene o quotati.

La cosa curiosa è che col passare del tempo, questa reazione mi succede anche quando vedo, o sento, commentare le foto altrui allo stesso modo.

Ora, posso capire che tu abbia una timidezza tale che pensi di aver già titanicamente superato con quei “complimentoni”; o che tu ritenga non così confidenziale il rapporto con l’autore cui ti rivolgi; o che soffri di un timore reverenziale; o che tu non abbia né tempo né voglia di aprire una conversazione articolata; o che ci siano molti altri motivi che limitino la tua capacità espressiva.

Più sovente, e benevolmente, sono portato a pensare che tu sia semplicemente limitato nel tuo vocabolario e nella tua intelligenza emotiva.

Vorrei allora provare ad offrire un davvero modesto contributo a tutti coloro che, in tutte le situazioni in cui si trovino, social o no, vogliano complimentarsi con un autore, in modo che quest’ultimo possa sentirsi davvero gratificato e aumentare proficuamente la consapevolezza nel suo lavoro.

Ad un primo “livello iniziale”, ancor prima di addentrarci in più ampie praterie, invito a considerare l’utilizzo di uno strumento dei miei tempi, e che purtroppo oggi pare costituire un tabù o un oggetto estinto: un “banale” Dizionario dei sinonimi e dei contrari.

So bene che molti siano totalmente all’oscuro dell’esistenza di questo presidio culturale: se ne vedono gli effetti!

So altrettanto bene che molti ne abbiano scordato la preziosità o ne accettino, sconsolati, una presunta inutilità a fronte di un uditorio non idoneo ad interagire (comprendere) proprietà e ricchezza di linguaggio.

Purtroppo tutti i media di oggi, anche quelli che dovrebbero invece costituire fari nella notte, inducono alla povertà di linguaggio.

La televisione stessa, che nell’Italia degli anni sessanta del secolo scorso, supportò e spesso surrogò l’istituzione scolastica nell’alfabetizzazione di tanta parte della popolazione, oggi propone linguaggi poveri e standardizzati, intrisi di termini stranieri (questo non sarebbe un male, se equilibrato e non invadente o pleonastico: es.lockdown).

Persino i telegiornali e i suoi professionisti dell’informazione propongono modi e tempi verbali sbagliati, termini errati, anacoluti, e strafalcioni grammaticali e sintattici vari. Quelli che una volta erano “trend setter” (ecco, ci casco anche io) o “modelli” avanzati per la popolazione, oggi sono ventriloqui vaniloquenti degli istinti più bassi e volgari. Il riferimento ai “politici” non è casuale.

Ma vogliamo provare ad entrare nel campo più specifico della fotografia?

Beh, insomma! Qui, pensando ai diversi approcci e punti di partenza, ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta!

Si badi bene: non si pretende nel modo più assoluto che tutti siano critici d’arte, estensori di note critiche, studiosi della fotografia, gente che passa le notti sui libri. Persone che spesso, oltretutto, sono leziosi, noiosi, saccenti (come me oggi).

Si chiede invece che le persone sappiano riferirsi, senza autoreferenzialità, alla propria personalità, alla propria cultura, al proprio vissuto, al proprio sentire, alla propria sfera emozionale, trovando le risonanze in se stessi di ciò che osservano, e che sappiano esprimersi con parole utili e non vuote di significato.

Non si chiedono teorici o professori, si desiderano persone semplici ma autentiche, testimoni sinceri dei propri sentimenti, emozioni, pensieri.

Una fotografia può essere considerata a partire dagli aspetti tecnici.

Si può valutare e commentare se è correttamente esposta, non in senso assoluto ed oggettivo, che non esiste, ma in relazione al tipo di foto, di messaggio, di contesto, di soggetto, ecc.

Si può valutare e commentare se il contrasto è adeguato agli stessi elementi.

Ci si può riferire alla nitidezza o allo sfocato, al mosso o alla staticità. Alla grana.

“La tua foto è bellissima, è perfetta sotto il profilo tecnico”, “Bellissima, sei in grado di esprimere un bianco & nero plastico, di eccellente fattura, che ti invidio, ecc.”

C’è anche il “bella, bella sì, ma ……” : eh pace, sottoponiamoci di buon grado al “sì, ma” e al “ma anche” se il contributo è davvero utile e competente.

“Cercando di entrare a fondo nella tua foto e in ciò che mi sembra di capire volessi dire, mi pare che il lowkey che hai usato forse tende ad incupire troppo il messaggio” cercando di aprire un discorso, più che a fornire una sentenza inappellabile, come si fa sovente nei circoli/gruppi fotografici.

 

Una fotografia può essere considerata a partire dagli aspetti compositivi.

Si può valutare se l’immagine è ben composta, se il taglio o il formato sono adeguati, se il soggetto emerge tra gli altri elementi, se la disposizione dei diversi elementi è utile ad individuare il soggetto o i soggetti ed il loro contesto, se la composizione è o meno funzionale al messaggio o al racconto che la fotografia esprime.

“Questa composizione è perfetta, non tanto perché rispetta la sezione aurea, quanto perché il soggetto di cui parli è perfettamente evidenziato e descritto, in relazione agli elementi da cui è circondato”.

“Il tuo occhio fotografico migliora di foto in foto”

“Ti riconosco un occhio sensibile ed attento”, “hai una capacità rara di far parlare i tuoi soggetti”.

Gli esempi possono essere infiniti.

Ma riempiamo di contenuti i nostri commenti e non solo di vuoti, seppur enfatici, aggettivi!

L’importante è infatti aggiungere un contenuto, un significato, ad un aggettivo troppo generico come “bello”, anche se al superlativo.

I due aspetti cui si è sopra accennato (tecnica e composizione) non sono, dal mio punto di vista, da trattare in modo cattedratico o dottrinale, quanto piuttosto dal punto di vista delle reazioni che questi elementi suscitano nell’osservatore, in senso visivo, intellettuale ed emozionale.

Non è per nulla utile fornire un parere altero o supponente, come sovente capita nei circoli fotografici, dove c’è sempre qualcuno più bravo degli altri.

Mi pare più utile fornire una generosa testimonianza di ciò che una foto suscita in me, seppure a riguardo degli aspetti più tecnici.

Anche se talvolta un leggero accenno sugli aspetti tecnici e compositivi può essere davvero utile all’autore, soprattutto se viene da una persona davvero esperta o appassionata che ti commenta con generosità e senza vanagloria.

 

Una fotografia può essere considerata a partire dagli aspetti emozionali.

“Questa foto per me è bellissima (amen) perché mi evoca ricordi d’infanzia / perché mi ricorda un amore / un momento o un’esperienza importante della mia vita / un momento triste, un dolore, ecc. ecc.”

“La tua foto mi suscita stati d’animo contrapposti / controversi / positivi / negativi / emozioni di questo o quel tipo”

“La tua foto esprime rabbia”, “La tua foto mi mette pace”

“La tua foto è emozionante per me”

Alleluja, alleluja!!!

Queste sono le cose che danno soddisfazione! La mia foto ti ha parlato e soprattutto ti ha fatto smuovere, e-mozionare, ti ha fatto parlare di te.

Facendo questo non sei autoreferenziale, non stai riconducendo tutto il mondo ai tuoi limitati parametri conoscitivi, ma attingi al tuo essere profondo per entrare in relazione con l’autore.

Osservatore e autore stanno provando vibrazioni non identiche, ma dello stesso tipo.

Il rapporto non è più distaccato, ma empatico. L’autore sente che la sua opera non è vuota, o significante solo per lui stesso, ma anche per altri.

 

Una fotografia può essere considerata a partire dagli aspetti comunicativi.

Bellissima, la tua foto comunica perfettamente il tuo messaggio”

Bella, il significato/ i significati della tua foto emergono limpidi”

“La tua splendida foto mi comunica la splendida persona che sei”

“La tua foto esprime tutto il tuo carattere calmo/ la tua ricerca di pace / la tua sofferenza di questo periodo /ecc.”

“La tua foto, per quanto bella, tecnicamente e compositivamente corretta, mi risulta un pochino fredda, asettica, non mi trasmette ciò che forse voleva essere il tuo messaggio”

Una fotografia, come ogni linguaggio, trasmette diversi tipi di messaggio, ma, di base, credo che ne trasmetta di due tipi:

  • uno che riguarda il soggetto (se c’è una storia) o un concetto (il pensiero dell’autore);
  • l’altro riguarda l’autore stesso: che tipo di persona è, qual è il suo carattere, il suo animo, ecc.

Ho fatto solo alcuni esempi per capirci.

Semplici parole, per quanto iperboliche, titillano solamente l’ego dell’artista, ma non hanno una reale utilità in termini di riconoscimento e/o di crescita e hanno di fatto una persistenza simile a quella della neve al sole.

I complimenti che arrivano sinceri sono comunque piacevoli, ma se sono non scontati e banalotti (bella, bellissima) è certamente meglio, soprattutto se rappresentano una cercata e consapevole emozione.

Bella, anche bellissima, mi significa solo un tuo vago appagamento estetico, ma non mi dice nulla sulla tua vera emozione.

“Mi ha fatto piangere”, “mi apre il cuore”, “mi ha creato un groppo in gola”, “mi toglie il fiato” sono già accenti enfatici, ma hanno a che fare con reazioni non epidermiche, vuol dire che ti sei sforzato di andare a capire un po’ meglio ciò che ti succede osservando quella foto, a cercare il nome corretto di quella emozione.

C’è differenza tra nausea, disgusto e schifo, c’è differenza tra gioia e felicità, tra mestizia e tristezza, tra dispiacere e rabbia, ecc.

Dare un nome esatto e descrivere ciò che provi fa bene a te che osservi, ma fa bene anche all’autore, perché capisce che ti sei sforzato di trovare le parole giuste, non le prime o le più facili, che usano tutti.

Capisce che gli hai offerto una reale attenzione.

Anche le citazioni colte, se non appaiono ruffiane e false, o di nuovo, autoreferenziali, aprono l’animo dell’artista, se in tutta sincerità sa di non avere scopiazzato un Maestro, ma di averne tratto un’autentica ispirazione.

Questi sono i contributi e, se vogliamo, i complimenti, che agli artisti fanno piacere e soprattutto comodo, perché restituiscono valore aggiunto, accrescono, migliorano e consolidano la consapevolezza dell’autore.

Ho cercato di dare un contributo, a partire da ciò che farebbe piacere a me sentire e da ciò che mi sforzo di fare quando vedo qualcosa che vale la pena o quando vedo la fatica del progresso nell’autore che ho davanti.

Se possibile, perciò non considerate questo testo come sfoggio di supponenza o vanità, ma come è per me stesso: spunti per un percorso di miglioramento.

Grazie per essere arrivati fin qui.

 

22.09.19 – Apertura del Blog

22 settembre 2019 - Apertura del Blog

 

 

 

Inizia oggi l'avventura del Blog di Scatti lenti

L'intento che mi pongo è quello di seguire il panorama artistico torinese (magari anche non solo) con particolare riferimento alla Fotografia.
In tal caso mi propongo di seguire anche i principali eventi e le principali manifestazioni di Fotografia, ad ogni livello, locale, nazionale ed internazionale, che possano essere seguiti o avere rilevanza per il nostro pubblico di riferimento.
Il blog si occuperà ovviamente anche delle attività di Scatti lenti by Giorgio Cerutti, artistiche, didattiche e di viaggio.
Sarà anche uno strumento flessibile e pratico per fare riflessioni sulla nostra arte preferita e per offrire pillole di fotografia, anche da un punto di vista tecnico.
L'auspicio è di rendere un servizio utile ed interessante, accrescendo la nostra grande passione.

https://scattilenti.blogspot.com/2019/09/apertura-del-blog-di-scatti-lenti.html