25.10.25 – in Project Room a Camera: “Cristian Chironi. Abitare l’immagine”

"Cristian Chironi - Abitare l'immagine" in Project Room a CAMERA fino al 1° febbraio 2026

Presso la Project Room di Camera a Torino, il 23 ottobre si è inaugurata la mostra “Cristian Chironi. Abitare l’immagine” dedicata alla lettura del rapporto privilegiato tra fotografia e performance nell’opera multidisciplinare dell’artista nuorese.

Il percorso espositivo, curato da Giangavino Pazzola, include una selezione di stampe, video e installazioni, alcuni inediti, dagli inizi negli anni 90 ad oggi:

Lina (2004), Offside (2007), DK (2009), Cutter (2010), My House is a Le Corbusier (2015).

Si evidenziano le sue originali strategie di costruzione dell’immagine: messa in scena, creazione dei personaggi, autoritratto, la performance, l’intaglio e rimozione, il collage, la combinazione di più linguaggi. L’immagine fotografica indaga la complessità delle relazioni personali e della propria identità, attraverso la creazione di un immaginario di finzione che altera la percezione della realtà.

L’operare su altre immagini, stampe o libri, mette in discussione la sacralità dell’immagine nel produrre memoria, per creare invece nuove connessioni di senso.

Ho potuto condividere con l’Autore un mio personale punto di vista a riguardo di un fil rouge che penso di aver individuato nei suoi vari progetti e nell’esposizione di Camera e che lui ha mostrato di apprezzare e condividere.

Si tratta di una particolare alchimia per la quale l’Autore si trova a Ri-Generare, o a Ri-Creare immagini.

I suoi punti di partenza sono sempre altre immagini, e immagini altrui, magari da libri, sulle quali la sua azione è proprio una nuova creazione, inserendo se stesso, o intagliando, o sovrapponendo collage.

In tal modo esse ri-nascono a vita nuova, non dunque con un abito diverso, ma come creatura nuova, non esistita mai prima, ma con i semi delle precedenti.

Invito alla visita della mostra e a provare a ritrovare questo fil rouge lungo tutto il percorso e poi a commentare questo post per condividere la vostra esperienza.

Buona visita!

INFORMAZIONI

CAMERA - Centro Italiano per la Fotografia

Via delle Rosine 18, 10123 - Torino

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01.10.25 – Lee Miller : la nuova mostra autunnale di Camera

LEE MILLER. OPERE 1930-1955 - La grande mostra dell’autunno a CAMERA

L’autunno di CAMERA - Centro italiano per la Fotografia di Torino vedrà protagonista una figura straordinaria della cultura mondiale del Novecento: la fotografa americana Lee Miller.

La nuova mostra, curata dal direttore artistico di CAMERA Walter Guadagnini, presenterà dal 1° ottobre 2025 al 1° febbraio 2026 oltre 160 immagini tutte provenienti dai Lee Miller Archives, molte delle quali pressoché inedite, per una chiave di lettura sia pubblica che intima del suo lavoro e della sua straordinaria personalità.

Il percorso espositivo si concentra sull’intensa attività tra gli anni Trenta e Cinquanta del Novecento dell’autrice americana, ponte ideale tra gli Stati Uniti - la sua terra natale - l’Europa, dove si trasferisce ancora giovane e dove decide di stabilirsi - prima a Parigi e poi in Inghilterra - e anche l’Africa, dove trascorre alcuni anni della sua intensa vita. Di origine statunitense (nasce a Poughkeepsie, nello Stato di New York, nel 1907), Lee Miller si sposta a Parigi alla fine degli anni Venti con la determinazione di diventare una fotografa, tanto da convincere Man Ray ad accoglierla come assistente nel suo studio.

Da questo momento inizia la sua vera e propria carriera, e continua una vita fatta di incontri e scelte eccezionali: si avvicina al mondo surrealista, diventando amica e musa ispiratrice di Pablo Picasso, Max Ernst, Paul Éluard, stringe rapporti con artiste del calibro di Eileen Agar, Leonora Carrington, Dorothea Tanning e realizza alcune delle immagini più significative della storia della fotografia surrealista, contribuendo anche alla scoperta della solarizzazione, una tecnica che lei e Man Ray sfrutteranno al meglio. Intorno a metà anni Trenta si sposa e si trasferisce per qualche anno in Egitto, dove realizza immagini di paesaggio dal sapore enigmatico, per poi tornare in Europa alla vigilia del conflitto mondiale.

Collaboratrice di “Vogue”, realizza per la più celebre rivista di moda non solo i classici servizi dedicati al mondo della haute couture, ma anche - in coincidenza con l’esplosione della Seconda Guerra Mondiale - inattese immagini che uniscono stile e vita quotidiana nella Londra ferita dai bombardamenti tedeschi.

Al termine della guerra che Lee Miller realizza i suoi servizi più noti, le tragiche immagini dei campi di concentramento e quelle del disfacimento della Germania nazista, con gli ufficiali suicidi, le fiamme che divorano la dimora estiva di Hitler e le città distrutte. Una serie di scatti ancora pubblicati su “Vogue” e che segnano in maniera indelebile anche la vita di Lee Miller, che dal dopoguerra infatti si ritira insieme al nuovo marito Roland Penrose nella campagna del Sussex, accogliendo lì gli amici artisti, mettendo da parte il suo impegno fotografico fino ad abbandonarlo: ma anche in queste immagini apparentemente solo familiari si legge ancora il genio sovversivo e ironico di una delle più grandi fotografe del XX secolo.

Il percorso della mostra segue un andamento cronologico, che evidenzia una delle caratteristiche principali della vita e dell’opera di Lee Miller: la sua inesausta curiosità e il suo continuo desiderio di cambiare, di scoprire aspetti nuovi tanto della vita quanto della fotografia. Le immagini che raccontano la sua partecipazione al clima surrealista appartengono infatti a un solo triennio, dal 1929 al 1932. In questo breve lasso di tempo, Lee Miller passa dall’essere solamente l’assistente e la modella di Man Ray - celebre è il racconto che lei stessa fece del loro incontro, in un bar vicino allo studio di Man Ray, al quale si presentò dicendo “Buongiorno, mi chiamo Lee Miller e sono la sua nuova assistente”, e alla risposta del maestro che le ricordava di non avere alcuna assistente lei replicò “Beh, da adesso ne ha una” - a realizzare opere come “Impasse des Deux Anges”, “Exploding hand” e “Coiffure”, tutte in mostra, fino a lavorare autonomamente nell’ambito della fotografia di moda e a recitare in un film di culto del periodo come “Le sang d’un poète” di Jean Cocteau.

Ma quando la sua carriera sembra avviata in questa direzione tra arte, moda e cinema, Lee Miller abbandona tutto e torna negli Stati Uniti, dove rimane per altri tre anni, aprendo uno studio fotografico nel quale ritrae diverse personalità del cinema e della high society statunitense e dove rafforza la sua presenza nel campo della fotografia di moda, collaborando anzitutto con “Vogue”.

Ma tutto questo non basta ancora a Lee Miller: incontra il ricco uomo d’affari egiziano Aziz Eloui Bey, se ne innamora, lo sposa e si sposta insieme a lui nel 1934 in Egitto. Una nuova esperienza, dunque, altre fotografie epocali (tra quelle in mostra, si ricorda quella forse più nota di tutte, che pare avere ispirato anche René Magritte, “Portrait of space”), la partecipazione a una sorta di cellula surrealista egiziana, che naturalmente lei metterà in contatto con gli amici europei e, dopo appena tre anni, il sorgere di una nuova inquietudine. Lee Miller torna nuovamente in Europa nel 1937, reincontra i suoi sodali surrealisti, tra cui le amiche Nusch Éluard, fotografata sorridente di fianco a un’automobile in un bellissimo ritratto, Ady Fidelin, nuova compagna di Man Ray, l’artista Dora Maar, compagna al tempo di Pablo Picasso, e conosce Roland Penrose, a sua volta artista e collezionista, che diventerà di lì a poco il suo secondo marito. Alla vigilia dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale nel 1939, si trasferisce con lui in Inghilterra, iniziando una nuova stagione di vita e di fotografia.

Cinque anni di guerra, cinque anni di fotografie dopo avere rinunciato a ritornare negli Stati Uniti per continuare a lavorare, volontariamente, nello staff di “Vogue” a Londra: dapprima, tra il 1940 e il 1943, le foto straniate della capitale britannica bombardata dai tedeschi (tra le immagini in mostra, anche la sorprendente “Fire masks”, dove l’abbigliamento di guerra trasforma i soggetti in protagonisti di una scena surreale), poi il desiderio di muoversi e la decisione di entrare a far parte dei reporter al seguito delle armate alleate in Europa, anche se sarà ancora “Vogue” a pubblicare i suoi servizi, sia quelli di moda che quelli più crudi realizzati sul fronte. E se già le sue fotografie sono straordinarie, sia quelle più reportagistiche dell’assedio di Saint-Malo sia quelle più misteriose scattate alla fine della guerra nell’Europa devastata, ancora più sorprendente è la sua eccezionale capacità di scrittura: tutte le immagini che escono su “Vogue”, infatti, sono accompagnate dai testi della fotografa, che si dimostra anche una grande giornalista.

In poco più di dieci anni, Lee Miller ha vissuto un numero di vite sorprendente, e dunque non stupisce la conclusione di questa vicenda e dell’intera mostra, che si svolge tra l’Italia – dove la fotografa realizza alcuni servizi sulla Biennale di Venezia, immortalando figure come Peggy Guggenheim o Giorgio Morandi, e dove realizza i suoi ultimi servizi di moda in Sicilia – e la casa della campagna inglese dove lei e Roland Penrose si ritirano, accogliendo gli amici come Saul Steinberg, Max Ernst, Alfred H.Barr Jr., Renato Guttuso, un giovanissimo Richard Hamilton, e mettendo in scena con loro divertenti siparietti che rappresentano l’ultimo contributo della fotografa alla cultura figurativa del suo tempo.

Tutto ciò è raccontato nella mostra attraverso 160 immagini, accompagnate anche dalla riproduzione di alcune pagine delle riviste dove sono stati pubblicati i suoi servizi fotografici e giornalistici. L’esposizione è inoltre arricchita da un catalogo edito da Dario Cimorelli Editore e da un programma di iniziative di educazione all’immagine, condivisione e partecipazione rivolte a pubblici diversi per età e formazione.

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30.09.25 – Camera festeggia 10 anni di attività

CAMERA - Centro Italiano per la Fotografia compie 10 anni il 1° ottobre 2025 e dà il via ai festeggiamenti per questo importante anniversario con l’apertura della grande mostra dedicata alla fotografa americana Lee Miller, a cura del direttore artistico Walter Guadagnini: un percorso attraverso più di 160 immagini, molte delle quali pressoché inedite e tutte provenienti dai Lee Miller Archives, per una lettura sia pubblica che intima del lavoro e della straordinaria personalità di questa grande fotografa americana.

La mostra inaugura il 30 settembre con un’apertura straordinaria e gratuita, dalle ore 21.00 alle 24.00: un regalo che CAMERA offre al suo pubblico e alla città tutta.

Per enfatizzare l'evento, il logo dell'anniversario questa sarà proiettato sulla Mole Antonelliana.

Nel corso dei successivi 10 mesi di festeggiamenti CAMERA proporrà un programma di attività che sarà volto a riflettere sulla fotografia del presente e del futuro, all’interno del quale si succederanno mostre di grandi autrici e grandi autori storici e contemporanei, incontri di confronto e approfondimento sul presente e sul futuro della fotografia, giornate di studio sulla fotografia documentaria e sul mondo degli archivi, workshop per giovani artisti, appuntamenti di editoria fotografica ed eventi pubblici per celebrare CAMERA e l’arte dello scatto.

Fotografia del presente e del futuro è anche il fil rouge del nuovo look delle finestre esterne di CAMERA dove, dal 1° ottobre, si potranno leggere frasi di celebri fotografe e fotografi che danno la loro definizione di fotografia. Sulle due facciate di CAMERA (in via delle Rosine e in via Giolitti) si alterneranno, con un risultato curioso e a tratti divertente, frasi richieste per l’occasione a fotografe e fotografe con le quali CAMERA ha collaborato - come Erik Kessel, Susan Meiselas, Paolo Ventura - e citazioni di grandi nomi del passato - come Man Ray, Lee Miller, Henri Cartier-Bresson - per citarne alcuni.

Aperto nel 2015 a Torino con il desiderio di creare una “casa” per la fotografia, CAMERA è diventato anno dopo anno un vero e proprio centro culturale dove si propongono al pubblico mostre, incontri, laboratori, workshop, appuntamenti legati alla ricerca, occasioni di scambio e dialogo sulla fotografia di ieri, di oggi e di domani: un punto di riferimento nazionale e internazionale per la diffusione della cultura fotografica in Italia, aperto a fotografe e fotografi, studiosi, appassionati e chiunque voglia conoscere l’arte dello scatto.

E proprio all’alba del suo decimo compleanno, CAMERA è stato recentemente (giugno 2025) premiato nella categoria Spotlight ai Lucie Awards 2025 - uno dei più prestigiosi riconoscimenti internazionali nel settore - per la sua capacità di rivolgersi a vari pubblici grazie a un ricco palinsesto di iniziative che fa dell’inclusione e dell’ascolto elementi centrali della sua identità e della sua missione culturale, caratterizzata anche da un forte impegno sociale e un marcato spirito divulgativo.

Sono 600mila i visitatori che in questo primo decennio hanno visitato le 85 mostre che si sono susseguite negli spazi di via delle Rosine. Sin dalla sua apertura, accompagnata da un’esposizione dedicata al fotografo ucraino Boris Mikhailov, CAMERA ha portato in scena celebri maestre e maestri della fotografia – come Eve Arnold, Margaret Bourke-White, Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, Robert Doisneau, André Kertész, Tina Modotti, Man Ray solo per citarne alcuni – oltre ai grandi nomi del panorama contemporaneo, da Sandy Skoglund a Martin Parr, ponendo particolare attenzione all’opera di autori italiani riconosciuti a livello internazionale come Carlo Mollino, Gianni Berengo Gardin, Paolo Ventura, Mimmo e Francesco Jodice. Dieci anni di immagini, storie e visioni durante i quali CAMERA ha anche oltrepassato i confini cittadini per approdare in altre prestigiose sedi in vari paesi europei, curando e organizzando mostre che sono state allestite anche in altre sedi espositive, da Milano a Perugia, da Anversa a Winterthur, da Tours ad Arles. Con la sua Project Room, inoltre, ha dato voce a nuovi talenti, idee e visioni così come a progetti sperimentali, per stimolare il confronto e approfondire il racconto della realtà attraverso le immagini.

Grazie a CAMERA il grande pubblico è entrato in contatto con i protagonisti della fotografia contemporanea: con 350 ospiti in 250 appuntamenti aperti al pubblico, assolute leggende e grandi protagonisti della fotografia internazionale - come Cristina de Middel, Joan Fontcuberta, Erik Kessels, Susan Meiselas, Zanele Muholi, Walter Niedermayr, Paolo Pellegrin, Ferdinando Scianna - sono state ospitate nei suoi spazi insieme a direttori di musei, studiosi, giornalisti, influencer.

Sin dall’apertura, CAMERA si è posto in dialogo con realtà internazionali, a partire dell’agenzia Magnum, socio fondatore del centro, al MoMA, al Jeu de Paume, a Les Rencontres de la Photographie d’Arles, alla Fondation Henri Cartier-Bresson, ai Lee Miller Archives, per indicarne alcuni; dal 2016 ha attivato una collaborazione con l’ICP - International Center of Photography di New York, con cui ogni anno organizza un programma di alta formazione professionale. Un’occasione unica, in Italia e in Europa, per formarsi con i docenti di una scuola di eccellenza e approfondire il linguaggio della fotografia documentaria contemporanea. Altra collaborazione internazionale attiva dal 2018 è quella con numerose realtà europee che ha dato vita a FUTURES (EPP – European Photography Platform), piattaforma per talenti emergenti della fotografia sostenuta dell’Unione Europea, attraverso il programma Europa Creativa, di cui CAMERA è unico partner italiano.

CAMERA è EDUCARE, DIVULGARE, PARTECIPARE

CAMERA è CONSERVARE, ORDINARE, VALORIZZARE

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12.06.25 – 170 scatti di Alfred Eisenstaedt – Camera fino al 21 settembre 2025

Se dovessimo chiedere, anche a molti appassionati di fotografia, chi è Alfred Eisenstaedt, probabilmente incontreremmo per lo più sguardi persi, alla ricerca nelle pieghe della memoria, e raramente un “ma certo, l’autore del “bacio di Times Square”.

Se facessimo invece vedere a tantissime persone la fotografia in questione, tutti potrebbero sinceramente dire di averla già vista.

Sì, perché l’autore di questa famosissima immagine, usata come il prezzemolo, è proprio il nostro Alfred Eisenstaedt.

Tedesco di origine ebraica, nacque nel 1898 nell’attuale Polonia (ex Prussia occidentale), riparato negli Stati Uniti nel 1935, trova la sua fortuna nella collaborazione con la celebre rivista Life.

“Questo è il tipo di fotografia che vogliamo” gli rispose la Redazione, e così nella sua vita di fotoreporter produsse circa 2500 servizi e fece la copertina per oltre 90 volte.

Non male per un fotografo professionista che però viveva la fotografia in modo amatoriale, amando anche le foto naturalistiche.

Si tratta certamente di uno dei Grandi della storia della fotografia, ma come si è detto, poco conosciuto nella sua produzione.

Anche per questo motivo, Camera, Centro italiano per la Fotografia, propone a Torino, nelle sue sale in via delle Rosine 18, dal 13 giugno al 21 settembre 2025, una notevole raccolta di 170 immagini, curata dalla brava Monica Poggi e ottimamente stampate dalla torinese Emozioni Fine Art di Davide D’Angelo.

La mostra scorre piacevolmente dalle primissime immagini adolescenziali realizzate con la Kodak, regalatagli da uno zio, lungo tutta la sua vita.

Dallo scatto a un torvo e minaccioso Goebbels, all’incontro tra Hitler e Mussolini, dalle immagini dell’aristocrazia a St.Moritz a quelle delle ballerine ispirate a Degas.

Il suo sguardo è insieme poetico ed ironico, dal sapore sempre spontaneo, candid.

Il suo stile ed il suo linguaggio evolvono dopo il trasferimento negli USA, dove registra con uguale dinamismo il fermento della crescita industriale e sociale.

Sono di questo periodo gli scatti per le strade, dinamici, mossi, senza ricerca di composizione ad ogni costo.

Dopo la guerra viaggia in Giappone (mirabile e struggente il ritratto della donna con bambino a Hiroshima), e in Europa, registrando anche qui i cambiamenti tra il prima e il dopo la guerra stessa.

A differenza di importanti fotografi dell’epoca e punti di riferimento nel mondo della fotografia, tra cui la collega di “Life” Margaret Bourke-White, Eisenstaedt non documenta la guerra ma ritrae le ragioni e le conseguenze generate nelle società, raccontandone il declino e la rinascita.

Il fotografo realizza anche servizi per raccontare le conseguenze dei conflitti in diversi paesi, come l’Etiopia ripresa prima e dopo l’invasione imperialista italiana, il Giappone dove l’imperatore Hirohito in abiti civili osserva le rovine lasciate dallo scoppio delle due bombe atomiche e Israele fotografato all’indomani della sua nascita.

In mostra si trova anche una sezione dedicata ai ritratti di personaggi famosi realizzati fin dai primi anni di carriera, con leader politici e celebrità che hanno segnato il secolo. Fra queste troviamo Sophia Loren, il cui scatto in lingerie, apparso sulla copertina di “Life” nel 1966, suscitò scandalo o quelle di Maria Telkes, Albert Einstein e J. Robert Oppenheimer, che ci offrono il suo sguardo su alcune delle menti più brillanti del Novecento. Anche in questo contesto emerge l’evoluzione umana delle figure ritratte: Oppenheimer, in particolare, è ritratto per la prima volta nel 1947 con sguardo spavaldo e poi ancora nel 1963, questa volta con l’espressione stravolta dal peso delle conseguenze delle sue ricerche.

Quella di CAMERA è dunque una preziosa riscoperta di un maestro della fotografia, proposta attraverso gli scatti più famosi e quelli meno noti, che rivelano tutte le sfaccettature della sua opera: non uno ma tanti Alfred Eisenstaedt.

dal 13 giugno al 21 settembre 2025

 

CAMERA - Centro Italiano per la Fotografia

Via delle Rosine 18, Torino

Per info (orari, biglietti, catalogo) riferirsi al sito di Camera: www.camera.to

14.03.25 – Riccardo Moncalvo, misconosciuto grande torinese della fotografia, Camera fino al 6 aprile 2025

Riccardo Moncalvo, misconosciuto grande torinese della fotografia

Conoscevo Moncalvo per alcune sue iconiche immagini in bianco e nero e ne avevo una ottima considerazione.

Ritrovare queste immagini, accostate a qualche altra decina selezionata per la mostra di Camera, mi ha confermato nell’opinione che Riccardo Moncalvo (Torino, 1915-2008) sia davvero un grande fotografo italiano, degno di altri ben più noti, purtroppo misconosciuto.

In 60 anni di carriera, ha instaurato un forte legame col territorio diventando testimone di cambiamenti urbani e sociali della sua città, e non solo.

Seguendo, fin da ragazzo, le orme del padre , titolare dell’Atelier di Fotografia Artistica e Industriale, lavora quindi a fianco di istituzioni come il Museo Egizio e l’Armeria Reale, e di realtà industriali come Fiat, Pininfarina e Recchi.

Moncalvo ha sviluppato un linguaggio autonomo con una particolare sensibilità per la modernità, assecondando, tra fine anni Trenta e fine anni Quaranta, il linguaggio della Nuova Visione (Nella tormenta (1935), Il gesto (1937), Paesaggio pedonale (1937) e Serpe d’acqua (1938).

Ma consolidando a poco a poco una cifra assolutamente personale e, per molti aspetti, di avanguardia.

Un importante riconoscimento internazionale arriva negli anni Cinquanta, quando viene selezionato dall’Agfa-Gevaert per apprendere il nuovo metodo di stampa a colori: da lì seguirà l’adozione delle pellicole negativo-positivo della Ferraniacolor arrivando nel 1958 a essere il primo in Italia autorizzato da Kodak all’uso delle sue pellicole.

L’attività del fotografo torinese cresce costantemente fino alla chiusura dello studio, avvenuta alla fine degli anni Ottanta.

Moncalvo ha battuto e sperimentato diverse strade, maturando diverse ispirazioni che traeva dal suo notevole bagaglio di conoscenze delle opere di diversi autori suoi contemporanei, fino ad affermare una propria cifra stilistica di assoluto rilievo, come fanno gli autori davvero grandi.

La sontuosa selezione di 50 immagini operata dall’ottima curatrice ed esperta di archivi, Barbara Bergaglio, mette in luce l’evoluzione e la straordinaria visionarietà dell’autore torinese.

La mostra è intensa e tutta da godere, con calma per apprezzarla a fondo, senza dimenticare l’ottino catalogo.

 

RICCARDO MONCALVO

FOTOGRAFIE 1932-1990

a cura di Barbara Bergaglio

 

dal 14 febbraio al 6 aprile 2025

 

CAMERA - Centro Italiano per la Fotografia

Via delle Rosine 18, Torino

Per info (orari, biglietti, catalogo) riferirsi al sito di Camera: www.camera.to

23.02.25 – Cartier Bresson e l’Italia in 160 foto a Camera – fino al 2 maggio 2025

A Camera, 160 foto di "Henry Cartier-Bresson e l'Italia"

Non sono mai stato un acritico estimatore di Henry Cartier-Bresson (HCB, per gli amici).
Potrei fare il nome di almeno dieci grandi fotografi e fotografe che considero almeno allo stesso livello, se non superiori, anche nello stesso genere del “nostro”.
Soprattutto mi sono sempre stati un po’ “indigesti” i suoi fanatici seguaci, che ovviamente lo considerano l’Assoluto, l’”occhio del secolo”, come è stato, secondo me, esageratamente soprannominato.

Non si può tuttavia negare il ruolo che HCB ha svolto in un particolare periodo della storia della fotografia, quando essa assumeva nell’immaginario collettivo un ruolo insostituibile di documentazione e racconto, tramite le riviste più famose e nonostante la crescita della televisione.

Ed è proprio questa la dimensione in cui si colloca la nuova mostra di Camera, Centro Italiano per la Fotografia, aperta dal 14 febbraio al 2 giugno 2025.
Curata da Clément Chéroux (Direttore della Fondation Henry Cartier-Bresson) e Walter Guadagnini (Direttore di Camera), la mostra su HCB, per la prima volta in assoluto, anche con la ricerca di foto inedite, propone un racconto dedicato al legame tra il fotografo francese e l’Italia, uno dei Paesi da lui più frequentati e amati, con l’intento di far emergere uno straordinario spaccato socioculturale del nostro Paese. “In Italia, come nei paesi mediterranei, c'è una vita fuori dalle case, la vita è per strada”, ha sottolineato Chéroux durante la conferenza stampa di presentazione.

L’esposizione presenta 160 immagini che si focalizzano su alcuni periodi centrali della carriera del fotografo.

Nel 1932, nel corso del suo primo viaggio, il fotografo, ancora giovanissimo, acquisisce nuove consapevolezze sulla sua carriera e definisce la cifra stilistica che lo renderà riconoscibile in tutto il mondo.
La straordinaria gestione dello spazio dell’immagine, il rapporto tra realtà e invenzione e la capacità di cogliere l’istante. In particolare, all’interno di alcuni paesaggi urbani si nota un processo di geometrizzazione del reale che racconta di un uso mentale della macchina fotografica.
La ricerca delle immagini di questo periodo ha consentito anche la ridatazione di alcune immagini.

Dopo aver fondato con Robert Capa, David “Chim” Seymour, George Rodger e William Vandivert l’agenzia Magnum Photos nel 1947, ormai noto a livello internazionale, il fotografo torna in Italia nel 1951, in un Paese profondamente cambiato, reduce dalla tragedia della Seconda Guerra Mondiale e in corso di ricostruzione.
In qualità di fotoreporter realizza servizi per diverse testate internazionali concentrandosi soprattutto su Roma e sul Sud Italia, che presentano caratteristiche sociali e visive ben riconoscibili. In particolare, sono celebri gli scatti realizzati in un Sud modellato sulle pagine di Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi.
Questi scatti documentano il disagio e le criticità del contesto sociale meridionale, ma anche la straordinaria ricchezza delle sue tradizioni e le novità introdotte dalla riforma agraria, dando ulteriore visibilità internazionale alla questione.

Tra gli anni Cinquanta e Sessanta Cartier-Bresson lavora a numerosi servizi sulle città di Roma, Napoli e Venezia, nei quali si può apprezzare da un lato la sua capacità di interpretare la vita quotidiana delle città e dei loro abitanti, dall’altro la sua abilità di ritrattista anche degli intellettuali del tempo, tra cui Pier Paolo Pasolini, Roberto Rossellini e Giorgio de Chirico.

L’ultimo periodo italiano risale agli anni Settanta, poco prima di allontanarsi dalla fotografia professionale, quando il fotografo si focalizza sul rapporto tra uomo e macchina e sull’industrializzazione in particolare del Sud del Paese: sono di quegli anni, infatti, i servizi sullo stabilimento Olivetti di Pozzuoli e su quello dell’Alfa Romeo di Pomigliano d’Arco.

La mostra si chiude idealmente con il ritorno a Matera, per raccontare, negli stessi luoghi fotografati vent’anni prima, proprio la nuova realtà che avanza verso la modernità, rimanendo comunque aggrappata all’imprescindibile identità locale, e con un video delle Teche RAI riscoperto per l’occasione.
L’esposizione cronologica nelle sei sale di Camera, include al solito un percorso di opere visivo-tattili accompagnate da audiodescrizioni.

Per info (orari, biglietti, catalogo) riferirsi al sito di Camera: www.camera.to

23.06.24 – Camera presenta 150 fotografie di Margaret Bourke-White – fino al 6 ottobre 2024

Le nuove mostre fotografiche estive di Camera, a Torino

Abbiamo partecipato alla presentazione alla stampa della nuova superba mostra su Margaret Bourke-White a Camera - Centro Italiano per la Fotografia, aperta fino al 6 ottobre 2024.
Dico subito due aspetti che trovo rimarchevoli: le eccellenti stampe di Davide D'angelo e finalmente i vetri antiriflesso che ne consentono piena godibilità. Grazie Camera!

Monica Poggi ha curato un percorso che, attraverso 150 fotografie, racconta l’opera della famosa fotografa americana dal 1930 al 1960.
Margaret Bourke-White ha attraversato la metà del XX secolo con una vita e un’opera straordinaria, con un livello ed una forza espressiva costanti, che l’hanno portata sempre dove la storia costituiva momenti di svolta, a contatto diretto con i più noti personaggi del momento, affermando in modo fermo, determinato ed anticipatore, la sua femminilità e la sua capacità di racconto per immagini.
Molti dei suoi scatti sono diventati iconici e famosissimi, la rivista LIFE le deve molto del suo successo, e noi dobbiamo molto alla sua acutezza di visione, alla sua ironia, al suo coraggio.
Bourke-White divenne una delle fotografe più note del Novecento, a tal punto che negli anni di suo maggior successo escono un fumetto e una serie televisiva a lei dedicati.
La sua forza è stata quella di leggere gli avvenimenti del mondo per trovarsi nel posto al momento giusto, senza per forza realizzare immagini sensazionali.
Nella sua autobiografia scrive:” Mi svegliavo ogni mattina pronta a ogni sorpresa che il giorno mi avrebbe portato. Tutto poteva essere conquistato. Niente era troppo difficile. Dicevi sì alla sfida e costruivi la storia”
Nasce a New York nel 1904, studia biologia alla Columbia University e frequenta per alcune settimane il corso di fotografia tenuto dal famoso fotografo pittorialista Clarence H. White.
Trasferitasi alla Cornell University, Bourke-White inizia a vendere le sue fotografie all’interno del campus per mantenersi durante gli studi; nel 1926 si stabilisce a Cleveland e apre un piccolo studio fotografico: di giorno immortala architetture e giardini, guadagnando il necessario per comprare attrezzature e materiali che usa di notte per ritrarre le grandi acciaierie della città.
Nel 1929 l'editore Henry Luce la invita a New York per contribuire alla nascita della rivista illustrata Fortune e da quel momento la carriera di Bourke-White è un percorso in continua ascesa.
Le trasformazioni del mondo sono il cuore della ricerca entusiasta e incessante della fotografa.
Pubblica celebri reportage sulle industrie americane e viaggia in Unione Sovietica, dove documenta lo sviluppo del piano quinquennale promosso da Stalin per trasformare il paese in una grande potenza industriale. Una delle immagini più note di questo periodo è quella che la ritrae accovacciata su uno dei grandi gargoyle del Chrysler Building, dove vive, mentre, senza alcuna protezione, fotografa dall’alto il brulichio della città sottostante.
Negli anni Trenta la rivista LIFE sceglierà la sua foto della diga di Fort Peck per la copertina del primo numero, uscito il 23 novembre 1936. LIFE vuole essere una finestra sul mondo, testimone oculare dei grandi avvenimenti della storia, fare vedere cose mai viste e sostenere i valori del New Deal. Se inizialmente i suoi lavori si contraddistinguono per la quasi totale assenza dell’uomo in favore delle architetture e delle macchine industriali, con la pubblicazione del libro fotografico You have seen their faces (1937) compie un cambio di rotta, concentrandosi sulla denuncia della povertà e della segregazione razziale nel Sud degli Stati Uniti.
Durante la Seconda guerra mondiale realizza reportage in Unione Sovietica, nel Nord Africa, in Italia e in Germania, seguendo l'entrata delle truppe statunitensi a Berlino e documentando gli orrori dei campi di concentramento.
Dedica gli ultimi servizi all’Apartheid in Sud Africa e alla segregazione razziale negli Stati Uniti.
Bourke-White viene accolta ovunque, anche in situazioni di conflitto, come una celebrità, status che le permette di realizzare ritratti a personaggi storici come Stalin e Gandhi.
Lo stile di Bourke-White predilige la posa alla presa diretta spontanea (più cara a Robert Capa), così trasforma le persone più umili in attori universali, rappresentati di una collettività, eroici anche nella miseria.
Dopo una carriera di reportage indimenticabili, nel 1957 è costretta ad abbandonare la fotografia a causa dei sintomi del morbo di Parkinson, dedicandosi alla scrittura della sua autobiografia Portrait of myself, pubblicata nel 1963. Nel 1971 muore a causa delle complicazioni dovute alla malattia.
La mostra include un percorso di opere visivo-tattili accompagnate da audiodescrizioni che approfondiscono lo stile e la storia. La selezione comprende sia alcune delle immagini più note sia alcuni scatti meno conosciuti del lavoro dell’autrice.

SALA 1 – I primi servizi di LIFE
Nel novembre del 1936 esce il primo numero di LIFE, rivista dedicata a un grande pubblico all’interno della quale la fotografia ha un ruolo fondamentale. Bourke-White viene incaricata di realizzare le immagini per le prime pagine e la copertina. Il soggetto è uno dei più grandi progetti del New Deal: la costruzione della diga di Fort Peck, in Montana. Col suo lavoro l’autrice racconta sia la monumentalità della diga che la vita degli operai che vivono con le loro famiglie nei villaggi e nelle baraccopoli sorte attorno al cantiere.

SALA 2 – L’incanto delle fabbriche e dei grattacieli
L’industria è uno dei temi più importanti e più ricorrenti della carriera di Bourke-White. Le prime immagini risalgono al 1926: realizzate nell’acciaieria Otis a Cleveland, dimostrano il grande coraggio e la determinazione nell’affrontare la pericolosità del luogo. Le industrie e le macchine sono per lei i migliori soggetti per raccontare il tempo in cui vive e la grandezza degli Stati Uniti, di cui si fa portavoce per tutta la vita. Allo stesso modo, le immagini delle città e delle metropoli raccontano la sua incrollabile fiducia nel progresso.

SALA 3 – Ritrarre l’utopia in Russia
All’inizio degli anni Trenta, Bourke-White compie diversi viaggi in Unione Sovietica, spinta dalla volontà di documentare gli stravolgimenti che investono il paese. Il governo stalinista ha infatti varato il primo piano quinquennale che ha lo scopo di trasformare il paese in una potenza industriale. Grazie alla sua esperienza nelle acciaierie, Bourke-White è la prima fotografa occidentale ammessa nel paese. Pochi anni dopo sarà la prima fotografa straniera a ritrarre Stalin, immortalato nel raro istante di un sorriso.

SALA 4 – Cielo e fango, le fotografie della guerra
Grazie a un accordo fra LIFE e il Pentagono, Bourke-White è la prima fotografa a seguire le forze di aviazione statunitensi durante la Seconda guerra mondiale. Passati alcuni mesi in nord Africa, si trasferisce in Italia, per documentare la liberazione e la vita della popolazione civile. Nel 1945 segue l’avanzata in Germania, fino alla liberazione di Buchenwald, dove ritrae i sopravvissuti scheletrici, gli ammassi di corpi, ma anche i volti sconvolti dei civili tedeschi obbligati a entrare nel campo per prendere coscienza di ciò che era avvenuto a pochi passi dalle loro case.

SALA 5 – Il mondo senza confini: i reportage in India, Pakistan e Corea
Durante la Seconda guerra mondiale, nasce in India il movimento di liberazione dalla dominazione coloniale britannica guidato da Gandhi, protagonista di alcune delle fotografie più note di Margaret Bourke-White. L’autrice ritrae anche il funerale del leader induista. Ritrae anche Muhammad Ali Jinnah, sostenitore della nascita dello stato pakistano, e i tragici massacri avvenuti fra hindu e musulmani e i drammatici fatti seguenti alla separazione fra India e Pakistan del 1947.
L’ultima guerra documentata da Bourke-White è quella in Corea dal 1952.

SALA 6 – Oro, diamanti e coca-cola
Il tema del razzismo è particolarmente caro a Bourke-White, che fin dai primi anni della sua carriera documenta senza esitazione le diseguaglianze che affliggono gli Stati Uniti.
Anche il reportage che realizza in Sudafrica mostra la crudeltà dell’apartheid, con lo sfruttamento dei minatori per l’estrazione di oro e diamanti.
Quando fotografare le diventa impossibile, decide di diventare soggetto fotografico. Con la testa rasata, si mostra sulle pagine di LIFE in una nuova veste.

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Con l’esposizione Il giorno dopo la notte, invece, fino al 21 luglio 2024, la Project Room di CAMERA apre le sue porte alla personale di PAOLO NOVELLI (Brescia, 1976) a cura del direttore artistico del Centro Walter Guadagnini, che riunisce due cicli di lavoro del fotografo – La notte non basta e Il giorno non basta - realizzati fra 2011 e 2018, considerati centrali nell’evoluzione del suo linguaggio.
Entrambe realizzate in analogico in un rigoroso bianco e nero, nel quale il processo di stampa assume un’importanza fondamentale, le due serie presentano sostanzialmente un unico soggetto, le finestre, coperte da persiane chiuse o murate, sulle facciate di edifici che non presentano alcuna caratteristica architettonica di particolare fascino. Le finestre qui vengono intese come una soglia, punto d’incontro tra dentro e fuori, luce e ombra. Il silenzio è un altro attore delle sue fotografie, avvolgente, in attesa di un movimento, un modo per sottolineare il tempo sospeso delle immagini, tra un prima e un dopo inconoscibili.

 

11.10.22 – Robert Doisneau: una sontuosa antologica a Camera – fino al 14 febbraio 2023

Ieri mattina abbiamo partecipato alla presentazione alla stampa della nuova, sontuosa, mostra di Camera - Centro Italiano per la Fotografia, aperta dall'11 ottobre 2022 al 14 febbraio 2023.

Robert Doisneau (1912-1994), notissimo per alcuni scatti iconici tra cui il celeberrimo “Baiser de l’Hotel de Ville”, ha lasciato un patrimonio di 450 mila negativi, meno noti.

L’ampia antologica di Camera consente di approfondire la conoscenza di uno dei Maestri riconosciuti del XX secolo.

Una mostra da gustare lentamente, per entrare a fondo nel mondo ripreso da Doisneau, per viverlo con gli stessi sentimenti che traspaiono dai suoi scatti.

Al termine rimane, anche nei giorni successivi, un retrogusto buono, un ricordo morbido ed avvolgente.

È una cifra stilistica specifica di Doisneau, rispetto al suo più noto collega Cartier-Bresson, che me le ho fatto amare fin dalla gioventù: mentre nelle foto di HCB traspare un approccio calcolato, quasi matematico, talmente perfetto da risultare spessp algido, nelle immagini di Doisneau c’è un fil rouge di coinvolgimento, di empatia, di immedesimazione, di partecipazione alla realtà che fotografa, che arriva all’osservatore non frettoloso.

Le parole del curatore Gabriel Bauret spiegano perfettamente l’intento della mostra: “non è l’ennesima esposizione su Robert Doisneau né una retrospettiva sulla sua produzione, ma è frutto della scelta consapevole di mettere in evidenza quello che c’è dietro le sue fotografie”.

In primo luogo si vuole mostrare il legame tra le sue opere e la sua biografia, scoprire l’Autore dietro le sue immagini.

È un uomo con una determinata storia, che viene da un determinato contesto e che ha cercato di ritrovare nella fotografia alcuni aspetti forse mancati nella sua esistenza. In particolare, Doisneau ricerca, nel suo “teatro della strada”, una certa forma di tenerezza, una certa forma di umanità.

È un fotografo “umanista” nel senso che l’uomo è al centro della Fotografia.

Doisneau non è un filosofo ma la sua fotografia è vicina alla filosofia umanista ed esistenzialista di Camus e di Sartre. La sua postura fotografica è pienamente consapevole del suo periodo storico, immersa nei drammi e delle speranze dell’uomo del suo tempo, e proprio per questo è assolutamente contemporanea ed attuale nella sua essenza.

É un fotografo che ricercava il proprio piacere personale nell’atto del fotografare, che cercava di trovarsi a proprio agio in quell’universo.

Del resto, Doisneau diceva spesso di amare e cercare quelle situazioni nelle quali si sentiva bene. In quelle situazioni che fotografa ritroviamo, infatti, sentimenti, complicità, intesa, nonché ironia e curiosità”

Il secondo aspetto che emerge da questa mostra è la qualità della composizione.

La costruzione dell’immagine va ben oltre il soggetto e il risultato è che tutto contribuisce ad evidenziare e far esprimere il soggetto stesso.

Consiglio di prestare particolare attenzione a questo aspetto, che in alcune immagini appare al primo colpo d’occhio, ma in molte altre emerge sottilmente e lentamente.

La mostra presenta un percorso attraverso i temi ricorrenti da lui affrontati in più di cinquant’anni con la fotocamera sempre pronta a scattare: Bambini, 1934 – 1956; Occupazione e Liberazione, 1940 – 1944; Il dopoguerra, 1945 – 1953; Il mondo del lavoro, 1935 -1950; Il teatro della strada, 1945 – 1954; Scene di interni, 1943 – 1970; Portinerie, 1945 – 1953; Ritratti, 1942 – 1961; Una certa idea della felicità, 1945 -1961; Bistrot, 1948 – 1957; Moda e mondanità, 1950 – 1952.

Il sontuoso allestimento della mostra a CAMERA presenta oltre 130 stampe ai sali d’argento in bianco e nero su carta baritata che provengono tutte dalla collezione dell’Atelier Robert Doisneau a Montrouge.

Al termine, un’intervista video al curatore Gabriel Bauret e la proiezione di un estratto dal film realizzato nel 2016 dalla nipote del fotografo, Clémentine Deroudille: Robert Doisneau, le révolté du merveilleux (Robert Doisneau. La lente delle meraviglie), che contribuisce ad approfondire la conoscenza dell’uomo e della sua opera.

Last but non least, con l’intento di favorire la partecipazione di un pubblico sempre più ampio, la mostra include un percorso dedicato alle persone con disabilità visiva che comprende disegni a rilievo e relative audiodescrizioni.

Infine il notevole catalogo “Robert Doisneau”, edito da Silvana Editoriale.

 

INFORMAZIONI

CAMERA - Centro Italiano per la Fotografia

Via delle Rosine 18, 10123 - Torino www.camera.to | camera@camera.to

Facebook/ @cameratorino

Instagram/ @cameratorino

Orari di apertura (Ultimo ingresso, 30 minuti prima della chiusura)

Lunedì 11.00 - 19.00

Martedì 11.00 - 19.00

Mercoledì 11.00 - 19.00

Giovedì 11.00 - 21.00

Venerdì 11.00 - 19.00

Sabato 11.00 - 19.00

Domenica 11.00 - 19.00

Chiusura

24 dicembre 2022

25 dicembre 2022

Orari speciali

31 dicembre 2022 11.00-15.00

1 gennaio 2023 15.00-19.00

Biglietti
Ingresso Intero € 12
Ingresso Ridotto € 8, fino a 26 anni, oltre 70 anni

e per i soci / possessori / iscritti:

Alliance Française AFIP – Associazione Fotografi Professionisti, Aiace Torino, Amici della Fondazione per l’Architettura, APC Gold Card, Card “Io Leggo di Più”, Card MenoUnoPiuSei, Centro Congressi Unione Industriale Torino, COOP, ENI Station, Enjoy, FAI – Fondo Ambiente Italiano, FIAF, Hangar Bicocca, Medicina e Misura di Donna Onlus, Ordine degli Architetti, Slow Food, Touring Club Italiano.

E per possessori del biglietto d’ingresso di:

Gallerie d’Italia (Torino, Milano, Napoli, Vicenza), Forte di Bard, Museo Nazionale del Cinema, MEF – Museo Ettore Fico.

Ingresso Gratuito
Bambini fino a 12 anni
Possessori Abbonamento Musei Torino Piemonte, possessori Torino + Piemonte Card, soci ICOM.

Visitatori con disabilità e un loro accompagnatore. Guide turistiche abilitate

09.09.22 – Al MAO la mostra: Riposo! Cina 1981-1984 nelle foto di Andrea Cavazzuti

Stamattina abbiamo partecipato alla presentazione alla stampa della nuova mostra del MAO (Museo d’Arte Orientale di Torino).

Si tratta questa volta di una mostra fotografica, ispirata alle radici culturali del Museo, ma ormai orientata alle nuove direttive dei Musei italiani, non più solo luogo della conservazione, ma soprattutto della fruizione, della produzione culturale, della condivisione pubblica del sapere e del patrimonio materiale artistico.

Questo al centro dell’introduzione del suo Direttore Davide Quadrio, nell’occasione anche curatore della mostra insieme a Stefania Stafutti, direttrice italiana dell’Ist.Confucio dell’Università di Torino, che hanno poi presentato la mostra e l’Artista fotografo.

Non si tratta di una mostra qualsiasi sulla Cina tra il 1981 e il 1984, ma delle fotografie di un importante Autore italiano, Andrea Cavazzuti, classe 1959, che partecipò tra le altre cose a “Viaggio in Italia”, il progetto fotografico inventato e coordinato da Luigi Ghirri, che vide coinvolto anche un altro grande come Olivo Barbieri che sarà a Torino il 1° ottobre proprio insieme a Cavazzuti.

Andrea Cavazzuti vive e lavora da più di trent’anni in Cina, dove approdò nel 1981.

Le sue parole: “In Occidente l’immaginario visivo della Cina era, come un po’ ancora oggi, quello del già defunto Mao e della già conclusa Rivoluzione Culturale. Figlio dei miei tempi e allenato com’ero a cercare oltre gli stereotipi anche in patria, fotografavo una Cina non vista e, quel che è peggio, nemmeno immaginata, quindi invisibile. Le cose già viste soddisfano, consolano, hanno a che fare con la memoria mentre il non visto è secco, scostante, refrattario, a volte antipatico. La Cina mi si presentava come uno straordinario bazar di oggetti, scene e comportamenti non omologati tra i nostri cliché culturali. Per me era irresistibile: gli oggetti in vista, la totale mancanza di privacy, le attività umane messe in scena su un palcoscenico sempre aperto, il paradiso del fotografo”.

La mostra di oltre 70 stampe in bn scattate in Cina tra il 1981 e il 1984, mostra in modo convincente “il clima della Cina di quegli anni: un paese ancora povero, ma affacciato su un futuro denso di speranza e animato da un entusiasmo che fa di quel periodo uno dei momenti più interessanti e, a mio avviso, più belli della storia recente di questo complesso paese” (Stefania Stafutti).

Il titolo dell’esposizione, 稍息 Riposo!”, è un riferimento agli anni di passaggio tra un periodo drammatico e l’avvio della rincorsa alla modernità attuale. Le sue immagini hanno seguito e immortalato la Cina e i suoi giganteschi cambiamenti dagli anni Ottanta a oggi, costituendo una testimonianza preziosa oltre che un’opera affascinante e corposa.

Con uno sguardo nitido e poetico, e un’ingente dose di senso dell’umorismo, Andrea Cavazzuti cristallizza in queste immagini una Cina che non esiste forse più, ma che è indispensabile conoscere per comprendere la storia e la personalità del colosso mondiale di oggi. Il suo sguardo è quello di uno straniero senza arroganza: la nostalgia gratuita è messa al bando, così come la trita ricerca dell’esotico. L’occhio di Cavazzuti coglie bellezza, comicità, fascino e stranezze con la freschezza del primo incontro. Le opere esposte, influenzate dalla forza della fotografia italiana di quegli anni, dimostrano però di trovare anche una strada del tutto personale.

Molte immagini colgono i contrasti di quegli anni, forieri del tumulto successivo, e si concludono sapientemente con una foto che affianca due giovani, vestiti uno in abito maoista, l’altro in abito di fattezze occidentali.

Consiglio senza dubbio la visita di questa mostra (termina il 2 ottobre p.v., quindi affettatevi!) per ammirare notevolissime stampe di grande formato in un eccellente bianco nero, di un Fotografo con la maiuscola, eccellente e non supponente, bravo ma modesto, con cui si può dialogare tranquillamente, come ho fatto. Anche dell’illuminazione da migliorare e dei riflessi che costringono l’osservatore ad un surplus di pazienza.

Ma questo è un problema ricorrente che Musei e Gallerie non sembrano in grado di superare, per vari motivi anche comprensibili. Peccato però, perché opere sontuose come quelle di Cavazzuti chiederebbero miglior godibilità.

In sintesi tantissimi complimenti all’Autore e anche al MAO che ha comunque allestito una mostra davvero eccellente sotto tutti i punti di vista.

19.02.22 – Note sulla mostra “Vivian Maier inedita” a Torino fino al 26 giugno 2022

Sono sempre piuttosto diffidente verso la cultura basata sui grandi nomi, quelli che quasi tutti conoscono e che quindi attirano.
Capitava così negli anni ’80-’90 a teatro, quando veniva proposto solo Pirandello, Goldoni, Feydeau, et similia.
Capita ancora oggi nel mondo dell’arte in generale, e della fotografia in particolare.

Poiché la fotografia è purtroppo ancora un’arte minore, almeno per il grande pubblico, e quindi il richiamo si fa usando i grandi nomi: Mc Curry, Cartier Bresson, Mc Curry in tutte le declinazioni possibili (… e i libri, e gli animali, e gli antipasti, e le scarpe, e le zie, ecc.), Vivian Maier, Mc Curry (sì, sì, sempre lui, stavolta coi tacchini e i bambini), ecc.  Insomma si è capito.
Per fare mostre di cassetta si propongono sempre i soliti nomi, anche a ripetizione.
Per carità! Si capisce bene che organizzare una mostra ha dei costi notevoli (programmazione, trasporti, assicurazioni, personale, e così via) ma talvolta la sciatteria è sconfortante, per usare un eufemismo.
Mi riferisco per esempio alla mostra su Vivian Maier proposta a fine 2019 a Stupinigi, su cui avevo già scritto tutto il peggio possibile.
E il popolo bue è sempre pronto a pagare biglietti sempre più cari per mostre sempre più scarse, pur di poter dire “c’ero anche io”.

Non si tratta di fare snobismo, ma di capire che la cultura non è seguire la corrente, ma è proposta di ricerca, di crescita, di elevazione, di studio, di fatica, di anticipazione.
Mi rendo conto, elencando, che si tratta di valori oggi in grave crisi.

Discorso diverso invece per quanto riguarda la mostra “Vivian Maier inedita”, proposta alle Sale Chiablesi, dal 9 febbraio al 26 giugno.
Mostra molto ampia e ben curata, con un indovinato percorso tematico, con un degno allestimento.

Continuo a pensare che Vivian Maier non sia una delle più grandi fotografe del XX° secolo, come mira a farci pensare il formidabile apparato di marketing che circonda la sua figura orchestrato dalla Maloof Collection, proprietaria della gallina dalle uova d’oro.
Si tratta certamente di una ragguardevole amateur, che merita certamente un posto di riguardo nella storia della fotografia, ma della cui consapevolezza si potrebbe discutere a lungo, soprattutto se si considera che dell’imponente mole di stampe e rullini neppure sviluppati si è venuti a conoscenza solo dopo la sua morte ed in modo assolutamente fortuito, lasciando aperta la possibilità di pensare che la fotografia per lei avesse una valenza terapeutica più che “artistica” o “reportagistica”.
Ciò non significa sottostimare il valore dello spontaneismo, che diversamente si sottrarrebbero alla storia dell’arte molti importanti artisti del ‘900, con scarsa o nulla fortuna in vita.

Riguardo all’”inedita”, diciamo subito che delle oltre 250 immagini esposte, molte sono assolutamente già straviste.
Si deve tuttavia riconoscere che la curatrice Anne Morin ha saputo, in un sapiente allestimento per tematiche, proporre molte “perle”.

La mostra affronta la totalità del lavoro della Maier, dalle foto di street fino ai poco noti filmini in super8, dagli anni ’50 alla fine degli anni ’80.
Tra le diverse sezioni tematiche proposte lungo il percorso espositivo, mi preme qui segnalare ciò che ho trovato particolarmente degno di nota, in quanto diverso dal solito e dal più noto.

La sezione “autoritratti”, oltre ai famosissimi ritratti specchiati nelle vetrine dei negozi, ce ne propone molti giocati sulle ombre e sui profili proiettati: una modalità certamente meno vista e conosciuta, ma che mi ha suscitato interesse ed ammirazione.

 

 

 

 

 

L’ombra del fotografo è normalmente considerata un errore. In questo caso Vivian Maier ha saputo farla diventare soggetto importante, elemento “animato” della composizione, con una sottile ironia allusiva, forse inconscia metafora della propria situazione esistenziale: una donna che vive nell’ombra, e che nell’ombra esprime se stessa in una modalità nascosta.

Il motivo delle ombre si ritrova nella sezione dedicata all’infanzia, nelle cui immagini gli stessi bambini che accudiva diventano partecipi del suo gioco.

Una indubbia capacità di creare situazioni in cui l’osservatore si sente chiamato, invitato alla partecipazione attiva, ad indagare e a porsi domande.

Anche per questo motivo, nelle foto che qui propongo ho aggiunto volontariamente la mia ombra, o i miei riflessi, e per giocare insieme a Vivian.

Sorvolo sulla “ruffiana” esposizione delle foto che la Maier ha realizzato a Torino nel ‘59, nel suo sembra unico viaggio fuori dagli Stati Uniti, sulla strada della avita regione francese del Champsaur: niente di più che banali cartoline ricordo di viaggio.

Mi soffermo invece sulla sezione intitolata “segni”. In queste immagini, che credo di non aver mai visto prima, la Maier si sofferma su oggetti o particolari, a volte talmente slegate dai propri referenti o contesti da risultare astratte.

Questa specie di catalogo di “trouvailles” trova un filo narrativo nel lungo termine e nella quantità, ricomponendosi alla fine nel racconto di un gioco, non direi infantile, magari maturato nelle sue attività di baby sitter.

 

 

L’ultima sezione su cui invito a soffermarsi è quella dei “giochi cinetici”.

Dall’inizio degli anni settanta il movimento e la frammentazione si inseriscono nel suo linguaggio fotografico.  Vivian Maier gioca con le temporalità, creando sequenze cinetiche, come usando il linguaggio cinematografico.

In questa sezione ho trovato dei veri, a mio modesto giudizio, colpi di genio che mi hanno catturato ed ispirato.

 

 

 

 

 

Il resto non lo anticipo, ma lo troverete riccamente esposto e sapientemente descritto anche nei generosi pannelli di presentazione di ogni sezione tematica.

Per ultimo, purtroppo due parole sull’illuminazione. Nella precedente mostra a Stupinigi era orrenda, insieme ad altri aspetti. Qui, nelle Sale Chiablesi, è molto migliorata, anche grazie a spazi di fruizione molto abbondanti.

Tuttavia quasi tutte le stampe riflettono in modo fastidioso. Allora io chiedo due cose:

  1. Per una mostra il cui biglietto di ingresso non è proprio popolare, non si potrebbero allestire cornici con vetro antiriflesso?
  2. Per quanto possa valere una stampa “argentique”, visto che sono comunque tutte ristampe, è proprio il caso di mettere un vetro di protezione? Non si potrebbe godere della vista “tattile” della ruvidità della carta senza un vetro di mezzo? Se anche se ne rovinasse una o due, cosa ci vorrebbe a ristampare? Ci sono nei musei opere di ben altro valore con minore protezione dal pubblico.

Godetevi una mostra di complessivamente ottimo livello!